Gian Lorenzo Bernini
Quando Bernini ricevette l’incarico di realizzare il colonnato prospicente il sagrato della basilica dei santi Pietro e Paolo, 1656-1657, la Controriforma metteva in scacco la fede Riformata. Il cattolicesimo, il suo valore universale, infatti, trova nella dimensione fisica del colonnato berniniano il punto di raccordo tra antico e moderno, arte e società e cultura e religione. Il frontespizio con cui la basilica romana introduce i fedeli nell’ecclesia e successivamente nello spazio rituale della basilica, nasce da un lavoro di ricerca che seppe pietrificare nel linguaggio architettonico, lo spazio effimero del teatro e quello laico del foro, la simbologia biblica e l’intimità con cui l’optium si manifesta nella dimensione intima dei giardini.
Il colonnato
Il colonnato laico del foro antico perde la sua rigidità quadrata, trovando nella figura dell’ellisse la spettacolarità del Colosseo. Spazio teatrale al cui interno le fontane riportano il suo spettatore nella dimensione sonora con cui l’acqua accompagna, nella frescura dei giardini rinascimentali, i pensieri dei suoi visitatori. Acqua che diventa diluvio e salvezza per Noè (Genesi 7), ma anche fonte battesimale per i neofiti e benedizione, per purificare il tempio del corpo dalla tentazione del peccato. La Chiesa si appropria di questo spazio, liberando le colonne della loro dimensione statica, trasformando i due corridoi in un passaggio cerimoniale dove l’urbe è introdotta, da un lato, all’interno della Porta Regia, l’ingresso con cui si accede al piano nobile del Palazzo Vaticano e, dall’altro, al sagrato della chiesa stessa.
È un diaframma dunque il colonnato Berniniano, uno spazio reale che scandisce ed esalta il passaggio tra la quotidianità fisica dell’essere e quella spirituale dell’anima, la dimensione lavorativa con cui la città vive il suo tempo collettivo e l’intimità con cui ogni fedele si rapporta con il mistero di Dio. Tempo, quest’ultimo in cui la Chiesa scandisce, attraverso la ritualità dei suoi gesti e la potenza dei suoi simboli, la comunione dell’Ecclesia, dimensione in cui l’Io si rapporta alla condivisione del Noi.
Con il passare degli anni, soprattutto dopo la distruzione della Spina di Borgo e la ricostruzione della via trionfale in era fascista, la piazza ha ridimensionato il suo effetto scenico. Il “grande evento, il colpo grosso” con cui Alberto Sordi, in un’intervista, ricordava l’emozione con cui la piazza si palesò per la prima volta ai suoi occhi di bambino, dopo aver attraversato con il padre, il labirinto di vicoli e piazzette con cui il Borgo con la sua oscurità, ne celava il suo splendore.
Con l’11 settembre, la paura di atti terroristici ne ha blindato il suo accesso. Metal detector hanno conteso con le transenne gli intercolunni, alienando la bellezza dell’unità estetica con cui Bernini ne aveva armonizzato la sua complessa genesi. La piazza e la Basilica romana hanno affievolito la loro retorica, diventano luogo di interesse turistico, passaggio di visitatori e appuntamento dove incontrare fisicamente il vicario di Cristo.
Urbi et Orbi
In un silenzio metafisico, il 27 marzo, la benedizione impartita da Papa Francesco I alla città e al mondo (Urbi et Orbi), ha riportato ogni sguardo dentro “l’architettura parlante” offrendo al misticismo di manifestarsi nel linguaggio simbolico con cui l’ostensorio si fa contenitore del corpo di Cristo. Nella piazza vuota, la pioggia ha scandito il tempo, mentre i passi claudicanti del Papa hanno riportato lo sguardo dei fedeli nel rapporto metrico con cui l’uomo diventa infinitamente piccolo nella vastità scenica del Teatro del Mondo. La particolarità di questa benedizione è l’indulgenza plenaria, con la quale si ha la remissione di tutte le pene dovute ai peccati commessi per coloro che si presentano con l’animo sgombro dall’attaccamento al peccato veniale. “Purificazione” che ha la sua valenza nei confronti del cristiano che si presenta al cospetto del Papa dopo aver confessato i suoi peccati e accolto con la comunione il corpo di Cristo. Durante questo evento mediatico, il Santo Padre ha rotto le formalità rivolgendosi a tutti i fedeli che in questo momento sono alienati nelle loro case, nei reparti di rianimazione, offrendo ad ogni anima la consolazione verso una paura umanamente tangibile che ci porta a fare i conti con la morte.
La Paura
Paura che ci riporta all’atto di fede e alla ricerca tangibile di una materialità divina che attraverso il miracolo offre salvezza e perdono. Lo testimonia la presenza del crocifisso ligneo, che a distanza di 500 anni, è nuovamente interpellato per debellare il morbo “pestilenziale” che oggi come allora lascia ogni spettatore sospeso tra la razionalità di una scienza che non sa offrire risposte certe e una fede che torna a fare i conti con l’umiltà e il bisogno di relazionarsi con una spiritualità che impone rispetto verso il creato e il creatore.
Papa Francesco I, nel rispetto di una forza comunicativa che distingue i gesuiti nella loro missione evangelica, ricolloca ogni soggetto nel proprio ruolo, catturando ogni osservatore nella dimensione meditativa con cui ogni essere deve relazionarsi con se stesso, con la propria responsabilità verso gli altri e con le parole con cui scegliamo di raccontare il senso profondo della vita.